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Grazie Maestro!

17 Ottobre 2018
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di Marta Dore

Il premio è avvenuto all’interno del Milano Film Festival e la serata cinematografica è stata all’insegna dell’understatement. Niente a che vedere con le roboanti atmosfere da Oscar e con solenni celebrazioni sotto i riflettori. L’atmosfera era in sintonia con il tipo di evento a cui stavamo partecipando allo Spazio Oberdan di Milano, la consegna del Premio Grazie Maestro!, ideato da Ranuccio Sodi in collaborazione con Alberica Archinto e Alberto Saibene, un riconoscimento che va a chi ha svolto un lavoro prezioso ma lontano dai riflettori nel cinema milanese, costruito sul lavoro di avventurieri ricchi di creatività, che imparavano il mestiere sul campo, con coraggio e dedizione assoluta.
Lo sfavillante mondo del cinema, infatti, si è sempre sostenuto su un sistema ben più ampio di operosità nascosta, di competenze e tecnologie, di mestieri e innovazioni che non sono mai stati oggetto di attenzione, benché essenziali.
Quella che si è celebrata il 4 ottobre è stata la prima edizione del Premio, andato a Lamberto Caimi, un protagonista e un pilastro del sistema cinematografico milanese, benché noto per lo più alle persone del mestiere. Caimi è stato direttore della fotografia dei primi film di Ermanno Olmi, e come il grande regista ha un tocco delicato e pudico. Poi ha lavorato con Eriprando Visconti, Gianfranco De Bosio, Alberto Lattuada, Umberto Lenzi, prima di diventare documentarista in proprio. Adesso è un uomo che non dimostra per niente i suoi 88 anni, gentile ma schivo come sono tradizionalmente i milanesi. Intervistato da Alberto Saibene, ha raccontato come da impiegato della Edison e fotografo dilettante è arrivato a essere direttore della fotografia di Ermanno Olmi: tutto merito di un’intuizione del regista bergamasco, che lo ha chiamato a lavorare con sé con mansioni generiche e poi, osservandolo, ha finito per affidargli la direzione della fotografia di vari suoi film degli anni 60. “A un certo punto mi sono messo a studiare, e la fotografia è diventata la mia unica professione”, dice Caimi. Lavoro sul campo e studio da autodidatta, insomma: un perfetto modello di operosità lombarda.

Tra i film di Olmi a cui Caimi ha lavorato c’è il bellissimo I fidanzati, del 1963, lo stesso anno in cui uscirono Il Gattopardo, 8 e mezzo e Le Mani sulla Città, tanto per dire della qualità dei film italiani di quegli anni. “Un film meraviglioso per il suo impasto di neorealismo e nouvelle vague, per il tratteggio così vero e pudico dei sentimenti”, per dirla con le parole di Alberto Saibene, che è stato proiettato prima della premiazione vera a propria. È una storia di migrazione al contrario. Giovanni, un operaio di Milano, viene trasferito in Sicilia per andare a lavorare in un impianto industriale appena aperto lì. L’uomo deve affrontare il distacco da Liliana, la fidanzata contraria al suo trasferimento, e anche dal suo vecchio padre, che resta solo, affidato al buon cuore di una vicina, con la prospettiva di un ricovero in un centro per anziani. Le riprese nella casa di riposo, con le inquadrature ravvicinate dei visi degli ospiti, sono struggenti di malinconia ed empatica tenerezza: “Sono trattati bene” dice il direttore. “L’unico problema è la malinconia. Si sentono abbandonati e se non si abituano, dopo un po’, va a finire che muoiono con il magone”. Non è facile per Giovanni.

Con la partenza, iniziano le riprese in Sicilia. Olmi mostra lo spaesamento e l’eccitazione di Giovanni, l’atteggiamento quasi colonialista dei lombardi in Sud Italia, la vitalità di un carnevale meridionale, che stordisce il protagonista milanese, travolto anche dalla sensualità di quella terra e delle sue donne.

Alla fine Giovanni e Liliana, dopo diverse incomprensioni, grazie proprio alla distanza che costringe a scrivere lettere e quindi a riflettere su di sé, si troveranno più uniti, consapevoli e maturi di prima.
Caimi ha raccontato come sono andate le riprese del film, come si lavorava usando quello che si trovava, senza sopralluoghi, senza budget: un temporale, una festa di paese, i visi delle persone indagati con grande intensità. Un modo di fare cinema che richiedeva improvvisazione, creatività e tanta forza anche fisica (le macchine da presa erano enormi e pesantissime), che però ha reso grandissimo il cinema italiano di quegli anni e che ormai non esiste più.

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