di Noemi Stucchi
Pondus100copie é un progetto editoriale a cura di Massimo Kaufmann e Silvia Barbieri. Si tratta di una raccolta di pubblicazioni in tiratura limitata, approfondimenti monografici stampati in 100 copie firmate e numerate. Dalle arti visive al linguaggio verbale, il progetto editoriale diventa un’occasione di incontro e di conversazione con i protagonisti dell’Arte Contemporanea in Italia.
Il Numero 19 “Remix Hermeticum” dedicato all’artista Andrea Zucchi è stato presentato il 28 febbraio in corrispondenza dell’inaugurazione della mostra personale presso lo studio di Ettore Buganza in via Vittadini 5/A di Milano.
In seconda battuta, il volume verrà presentato mercoledì 10 aprile alla Galleria Giovanni Bonelli in via Lambertenghi 6. Al centro ci sarà il lavoro di tre artisti: quello di Andrea Zucchi, di Daniele Galliano e di Nicola Verlato.
Attraverso la conversazione con Massimo Kaufmann, “Remix Hermeticum” diventa un’occasione di dialogo con l’artista.
Con Not Only Magazine avevamo avuto la possibilità di conoscere Andrea Zucchi in un’intervista dedicata all’autore e cogliamo ora l’occasione per ringraziare questa nuova possibilità di incontro.
1) Partiamo dalla prima parola del titolo, Remix Hermeticum. “Remixare” è una parola che strizza l’occhiolino ad alcuni mestieri contemporanei come quello del dj. La post-produzione digitale attinge ad immagini e suoni preesistenti per scomporre, sintetizzare e ricomporre qualcosa di nuovo.
Dal figurativo all’astratto, nella sua ricerca artistica ritroviamo un filo conduttore: un attingere a luoghi ed epoche diverse senza confini di spazio e tempo, un tentativo di recupero della sopravvivenza e della carica emotiva delle immagini.
A tal proposito, ricordo nella citazione una sua frase: “Lavoro a cicli, con salti anche bruschi tra loro, ma tutti fondati sull’appropriazione di immagini esistenti. Non creo nulla. Copio, combino, connetto, affianco, stratifico, sovrappongo e ripropongo”.
(Qui il link: A, Zucchi, Confuso con metodo. Testo di autopresentazione per le proprie opere nella Collezione VAF-Stiftung).
Quale significato assume la parola “remix” all’interno della sua ricerca artistica?
A.Z. Appartengo ad una generazione che è cresciuta e si è nutrita da un fiume immenso di fotografie e illustrazioni di ogni genere, prima attraverso enciclopedie illustrate, riviste, libri, fumetti, film, pubblicità e poi sempre più esponenzialmente attraverso il web. Per la prima volta nella storia umana abbiamo a disposizione in contemporanea la quasi totale presenza di immagini, ma anche di musica e testi, create dall’uomo. Era inevitabile che molti artisti, ognuno naturalmente a modo suo, si appropriasse e rielaborasse questa massa immensa a disposizione. In realtà ciò avveniva anche in passato ma con una scelta più ristretta di possibilità.
2) Un simbolo è formato da due parti legate tra loro: un significante (segno) e un significato (contenuto). Nelle sue opere questo connubio viene interrotto senza attribuzione di un significato univoco e il contenuto rimane aperto. Usando le stesse parole, nella conversazione con Massimo Kaufmann viene messa in risalto la “valenza grafica e ornamentale” della composizione e mi piace questa parola che utilizza: “configurazioni”, perché i simboli non arrivano mai da soli ma sempre in gruppo. Cosa vorrebbe che trasmettessero le sue opere agli occhi di chi guarda?
A.Z. Come già detto in quella conversazione vorrei che questi dipinti avessero la capacità di assorbimento dei mandala ma anche una vivace allegria da videogames. Vorrei che inducessero alla meditazione e alla contemplazione, ma soprattutto che potessero donare a chi li guarda un istante di gioia e di sospensione. E vorrei che fossero delle piccole preghiere di ringraziamento al Cosmo, alla Bellezza e un omaggio all’infinita varietà delle credenze sul divino che l’umanità ha generato, anche le più bizzarre. In questo senso uso i simboli, anche senza conoscerne bene il significato e credo che essi ci parlino comunque grazie alla loro configurazione energetica e ci ricordino che il Trascendente da qualche parte esiste. E ci conducono, come diceva San Paolo “per visibilia ad invisibilia”.
3) La forma della tela non è sempre rettangolare e a volte assume delle sagome come delle pale d’altare. Il formato del supporto e l’utilizzo del colore come incide nel messaggio che viene veicolato dalla pittura?
A.Z. La scelta di formati geometrici è sorta abbastanza spontaneamente, si prestava molto bene al tipo di forme che ho sviluppato in queste immagini, e devo dire che sempre più mi sento collegato a una sensibilità “gotica” e pre-rinascimentale dove la forma rettangolare era quasi un’eccezione. Anche l’utilizzo di una gamma cromatica intensa, al limite dello stridore emerge in me naturalmente. Forse ha a che fare con il mio lato infantile sempre presente, nutrito poi dal mio amore per le cromie dell’India, dell’Africa e del Sud America, della psichedelia e anche della pittura manierista.
4) In questo ciclo pittorico è centrale la pittura come pratica artistica, un gioco che ha delle regole di ordine, forme e colore. Si ha la sensazione di trovarsi di fronte a qualcosa di famigliare come davanti a dei mandala o dei cerchi alchemici. In altri casi, le sue opere possono richiamare l’immagine di alcuni giochi da tavolo su cui muovere le pedine.
L’arte richiama alcuni aspetti del gioco: ogni gioco segue le sue regole, così come la Pittura ha la sua disciplina. Distaccandoci dalle regole del gioco si approda con distacco e naturalezza all’aspetto ludico. In particolare si parla di un’opera, Sufi Sufi Sephirot Flipper “sagomata come una pala d’altare ma anche come un flipper” (cito testualmente).
Regole e libertà: qual è il suo approccio?
A.Z. A riguardo non posso che citare Schiller “L’uomo è pienamente tale solo quando gioca”, perché il gioco non avendo altra finalità che il gioco stesso, è un campo libero dove si può trovare piena armonia tra regole, sensibilità, intuizione, pensiero e abilità pratica. Anche l’Arte può essere vista come un gioco, o meglio, come uno squarcio dell’inaspettato in un campo da gioco costruito da convenzioni che l’artista in parte seleziona e in parte assorbe dal suo ambiente culturale. Ogni tanto per sapienza, per azzardo o solo per fortuna si azzecca un buon colpo che riesce a meravigliarci. Ma la meraviglia, almeno secondo la tradizione platonico-aristotelica, non dovrebbe mai essere fine a se stessa, ma qualcosa che porta nuova conoscenza e ci conduce più vicini alla verità. L’arte, almeno la grande Arte, per quanto rimanga un gioco, è sempre un gioco di conoscenza e ci conduce più vicini alla verità, per quanto proteiforme questa possa essere. In ogni opera d’arte riuscita si trovano elementi che già conosciamo e riconosciamo, che derivano dall’assorbimento delle “regole” già elaborate, in cui si innesta qualcosa che ci apre ad una prospettiva precedentemente non prevista, ampliando così la nostra visione e consapevolezza del mondo e di noi stessi.