di Silvia Simonetti
In questi giorni, nelle sale cinematografiche italiane ritorna di nuovo la presenza filmica di Wim Wenders, un regista e uno sceneggiatore tedesco, dalle doti poliedriche laddove ogni contenuto filmico si trasforma in uno scenario camaleontico e riflessivo, l’abbiamo visto con l’ultima rappresentazione di vita quotidiana con Perfect Days (2023) Il cielo sopra Berlino (1987), Pina (2011) Ritorno alla vita (2015).
Ma questa volta, il regista si trasforma in un traduttore reale, egli diviene interlocutore della verità più incontaminata e per farla emergere ha bisogno degli artisti, di coloro che scrutano e allo stesso si ribellano al mondo, diventando visionari esclusivi, impenetrabili e alquanto irraggiungibili come nel caso di Anselm Kiefer.
Già noto il documentario di Wenders con “Il sale della terra” (2014) che raccontava la vita e l’arte dello sguardo umano attraverso la fotografia di Sebastião Salgado. In questo caso, il regista ci fa vedere un grande Maestro d’arte, con il suo documentario in uscita: Anselm, un nastro d’oro che ristabilisce una voluta incompletezza estetica, proiettata in un’avanguardia liberatoria e non soltanto politica.
Wenders riesce incredibilmente a mettere in rilievo la storia e il coraggio di un artista che fronteggia con gli ideali controversi del neo-nazismo, esponendo l’oblio, la vergogna e la distruzione attraverso le sue opere.
Spesso nel documentario, interviene l’artista come un ancoraggio intimo e devoto al pensiero catartico della memoria individuale e collettiva dell’uomo.
Si crea una relazione intima con lo spettatore, sarà Anselm Kiefer a condurci sul significato dell’esistenzialismo filosofico, un richiamo empirico affine ad Emil Cioran laddove tutto è paradosso, una montatura ermetica del nichilismo.
La sua voce si convoglia con estrema consapevolezza e indagine in tutte le sue opere sia scultore, pittoriche e monumentali sono un’eterna redenzione alla sofferenza, alla pietà e infine a ciò che non basta mai: la lotta interiore.
Kiefer ci insegna che ogni tecnica d’arte può avere una valenza interpretativa, per esempio nell’esposizione Die Schechina (2010) realizza abiti in gesso cuciti con frammenti di vetro all’interno di vetrine oppure la complessità alchemica di mostrare una realtà parallela. Dai paesaggi costernati dalla paura della tragedia umana fino a tele di grandi dimensioni, la fatica dei grandi Maestri di dipingere la materia in forma astratta e allo stesso tempo un codice universale tant’è che la sua predilezione per Tintoretto con l’Origine della Via Lattea rimane il suo punto nascente e allo stesso tempo contemplativo.
Ogni artista viene ispirato da forme antiche, simboliche e rinascimentali, laddove si può evadere dalle strutture e schematizzazioni sociali dir poco favorevoli, mentre l’arte di Kiefer non decresce ma si evolve soltanto in una sfera sperimentale del sentimento umano dove tutte le emozioni si condensano in un’unica spirale naturale e cosmologica come nell’opera: Cette obscure clarté qui tombe des étoiles (Questo oscuro chiarore che cade dalle stelle) del 1996.
Qual è l’eredità infinita che ci lascerà Anselm Kiefer? Wenders ce lo mostra attraverso il viaggio esperienziale della sua vita, un artista che anche dopo la sua scomparsa si continuerà a ricordarlo perché è riuscito a rendere spirituale, la materia del consumismo politico ed economico. Sarà con I Sette Palazzi Celesti, la sua installazione permanente al Pirelli Hangar Bicocca di Milano, con quest’ultima rappresentazione, l’antico testamento ebraico che muta in questi palazzi (Hekhalot) laddove la salita verso l’alto o in basso ci costringe al sacrificio, in qualsiasi circostanza le gabbie diventano palazzi con palle di piombo, l’opposizione tra la pesantezza e la leggerezza di un altitudine sempre più vasta.
È questo Kiefer: un creatore che sa vegliare tra ciò è miseramente perduto nella terra e tra ciò che resterà incompreso tra le sommità dei cieli sacri, inafferrabili e desiderati dall’essere umano.
Ph. Credits immagine di copertina: @Lucky Red