di Ludovico Riviera
Un semibiopic
Un semibiopic da non perdere per godere dell’enorme capacità organizzativa del regista, lo stimabile Branagh, che imbastisce una macchina narrativa quasi perfetta.
Il regista Kenneth Branagh
Il penultimo (l’ultimo è Assassinio sul Nilo, celebre caso di Hercule Poirot, anche se uscito prima nelle sale) film di Kenneth Branagh (Belfast, 1960) non può non risultare nostalgico, emotivo, anche un po’ scontato nel suo ottimismo: ispirato a vicende che il regista ha vissuto in prima persona, Belfast è comunque un fiore all’occhiello della produzione del multiforme regista, autore oltre che attore, che proprio grazie ad esso vince la candidatura alla settima categoria di Oscar diversa della sua carriera.
L’opera di Branagh tra film e teatro
Il film è un piccolo capolavoro che mette in gioco, assieme alla scrittura biografica, anche l’enorme cultura operativa del suo autore, in ciò che potrebbe diventare un nuovo punto di partenza per il regista – da sempre impegnato in svariati tipi di produzioni, dalle più intellettuali (parecchie le realizzazioni di e partecipazioni in pellicole shakespeariane) sino ai blockbuster più commerciali (come il fortunato Thor dell’MCU, nel 2011, e il meno bello Artemis Fowl del 2020): Branagh, formatosi nel teatro di Laurence Olivier, esordisce trasponendo il teatro nel cinema (l’Enrico VIII dell’89, l’Hamlet del ‘96), e in ogni suo coinvolgimento traspare, abbastanza prepotentemente in realtà, questa sua impostazione squisitamente scenografica, anche in generi che non richiederebbero la magniloquenza che ci si aspetterebbe dal teatro.
Esempi di successo nel cinema internazionale
È questa una tendenza di cui siamo ben lieti di constatare il successo nel cinema internazionale, inevitabilmente pesantemente influenzato dalla tradizione drammatica del teatro inglese – tant’è che sono moltissimi gli attori che hanno indossato i panni di personaggi resi iconici proprio dalle modalità recitative dei loro interpreti: pensiamo al Gandalf di Ian McKellen, al Picard di Patrick Stewart o alle numerose incarnazioni di Kevin Spacey – che non ha mai smesso di produrre campioni versatili e di visibile cultura interpretativa, a loro agio nel grande schermo tanto quanto sul palco.
La regia di Branagh e un po’ di contesto storico
Branagh impone questa cultura anche nel suo fare regia. Il film è visto dal punto di vista del protagonista Buddy, un bambino protestante di 9 anni che, vivendo pacificamente in un quartiere ‘misto’ assieme a numerosi cattolici negli anni sessanta, vive i primi sprazzi dei Troubles: gli scontri, spesso feroci, che opposero protestanti e cattolici, e che sfociarono nel terrorismo, per il trentennio a seguire.
Inquadrature e il punto di vista del protagonista
La camera è tenuta generalmente bassa, nel rispetto dello sguardo del protagonista: è proprio con l’invasione del quartiere da parte dei protestanti, che distruggono porte e finestre, minacciando i locali, che il film comincia e con lui inizia a perdere l’innocenza il suo sgomento protagonista; un’esplosione, un giro di camera e una smorfia di spavento, a rompere la condizione di precedente idìllio giocoso.
Da manuale.
Il dramma
È considerevole la dose di dramma che imperverserà nel film sino alla fine: sia esso plateale come nella prima scena dell’invasione, più silenzioso come nelle scene del mobbismo dei lealisti nei confronti del padre di Buddy (che rifiuta di prendere parte alla causa) o stemperata dalla vita, comunque ingenua, di un bambino di 9 anni che non capisce benissimo quello che accade, pur vedendo tutto.
La narrazione e il contesto
Il dramma c’è ma non invade troppo, pur costituendo parte fondamentale della narrazione, l’economia della parabola famigliare che si svolge quasi come se nulla fosse: la politica, seppur visibile, è di sfondo – non sminuita, attenzione, è semplicemente ‘contesto’ – tanto quanto le magistrali scenografie che manifestano la parvenza teatrale circoscritta dalla limitatezza delle ambientazioni essenziali; l’illuminazione artefatta, rinfrancata dal B/N, rinforza l’eccezionale formalismo della fotografia e il muoversi arioso dei personaggi rende tutto veramente troppo perfetto, costruito, se non fosse per quell’oscura nebbia all’orizzonte: la violenza del conflitto religioso e sociale, babbo che lavora oltre frontiera, qualche problemuccio con la mamma anche se lei è sempre premurosa coi bambini, e severa, i nonni sono saggi e divertenti…
l’opera registica è una macchina bene oliata
Tutto questo per dire che l’opera di Branagh è una macchina bene oliata, i cui difetti (nessuna opera è perfetta) si compensano a vicenda, senza che nessuno prevalga sull’altro – un’opera è brutta quando ha pochi difetti, ma gravi ed evidenti.
Se tematicamente il conflitto politico non è il centro del film, la sua gravità non è del tutto alleggerita dall’atmosfera artefatta, capace di illustrare il passaggio dell’ideologia che lo alimenta dalla predicazione del prete in chiesa, sino agli atteggiamenti potenzialmente tossici dei bambini, all’organizzazione rigorista, pseudo-capitalista di una scuola che classifica eccessivamente secondo le prestazioni dei suoi studenti.
Si percepiscono bene le durezze di una vita che, sebbene fantasticata con nostalgia, appare austera come doveva essere; prona alle vicissitudini come noi persone contemporanee, generalmente, non riusciamo più a immaginare.
Con Belfast Kenneth Branagh si conferma un magniloquente interprete del cinema
Kenneth Branagh si conferma un magniloquente interprete del cinema perché riesce, con Belfast, a capitalizzare uno scibile biografico, tecnico ed emozionale in uno spettacolo che riesce a descrivere senza nemmeno troppo fronzoli (nonostante l’incedere colto, la narrazione è comunque lineare, quasi fiabesca nella sua semplicità) la precarietà dell’esistere in una società mai troppo sicura, soprattutto a 9 anni, e al vergere di un conflitto sociale di cui noi possiamo solo vantare pallide imitazioni.