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Biennale di Venezia

59esima Biennale di Venezia

di Noemi Stucchi

Siamo stati alla 59esima Biennale d’Arte di Venezia: parliamo di The Milk of Dream e il Padiglione Italia di Gian Maria Tosatti.

Il latte dei sogni: The Milk of Dream

Sembra che nel mondo del latte dei sogni dove tutto è possibile non vedremo i soliti protagonisti a cavallo di un cavallo bianco.  Non ci sarà neanche la solita voce narrante, quella onnisciente che tutto sa. Più voci e più punti di vista: non c’è più La Storia, ma a prendere forma sono le storie al plurale.

Questa “The Milk of Dream”, la 59esima edizione della Biennale di Venezia di Cecilia Alemani è un racconto corale che si apre a tante possibilità. Il racconto di una vita, la nostra, in relazione ai dettagli che ci circondano. Al centro l’essere umano, più essere che umano; una grande mostra che guarda alla vita oltre la specie, alla creazione, alle streghe e all’ “altro” mondo femminile, alla metamorfosi tra naturale e artificiale.

Artista: Belkis Ayón

Ripensare, sovvertire, reinterpretare, riadattare.
L’arte figurativa torna ad essere riletta per veicolare un messaggio narrativo, proprio come in un racconto. Una storia di ibridazione in cui ad essere protagonista è l’essere umano in relazione all’ambiente tra sogno e realtà, umano e non, naturale e artificiale. Il titolo stesso the Milk of Dream è una diretta citazione del libro di Leonora Carrington in cui

«l’artista surrealista descrive un mondo magico nel quale la vita è costantemente reinventata attraverso il prisma dell’immaginazione e nel quale è concesso cambiare, trasformarsi, diventare altri da sé. La Mostra propone un viaggio immaginario attraverso le metamorfosi dei corpi e delle definizioni dell’umano.» (Cecilia Alemani)

Com’è questa Biennale?

Terracotta, ampolle, piccoli contenitori, maternità, per una mostra più rococò che neoclassica.

Per chi è avvezzo alle ultime tendenze nelle arti visive questa edizione potrebbe risuonare come qualcosa di già visto e se ne prende atto. L’arte contemporanea abbraccia i gender studies, le tematiche ambientali e la rimessa in discussione dello sguardo antropocentrico per ragionare sul ruolo dell’uomo nel mondo in relazione alla vita.

Delcy Morelos, Heartly Paradise (2022)

Punti di forza e sguardo critico

Nel rimarcare l’importanza di queste tematiche, il taglio narrativo e “surrealista” potrebbe portare lo spettatore a leggere questi racconti visivi come delle storie, appunto, “lontane” soprattutto in relazione agli ultimi due anni che abbiamo vissuto. Se da un lato siamo stati sommersi da eventi imprevedibili, dall’altro si ha come l’impressione che l’arte avrebbe potuto mostrarci di più in un confronto con le altre discipline. Nell’era del post-umano, quanto il “Cyborg” di Donna Haraway può trovare dialogo con le scoperte scientifiche di oggi (con il Metaverso ad un passo da noi)? Come il profetizzato “chtulucene” avrebbe potuto ridimensionare il nostro sguardo sull’essere nel mondo in relazione ad una contaminazione pandemica?
Non è sempre chiaro come l’arte possa essere socialmente “utile”; ma forse avrebbe potuto mostrarci con i suoi occhi quello che oggi si fa spazio in maniera così evidente.

Al di là di queste considerazioni, attraversando l’arsenale e i Padiglioni della Biennale di Venezia si ascoltano tutte queste storie che portano con sé delle verità.
L’arte ha questo potere, dare voce per mostrare altri mondi.

 

Padiglione Italia: Gian Maria Tosatti

Si entra contingentati e i cartelli impongono di fare silenzio. Sì perchè Gian Maria Tosatti racconta una visione di estinzione in cui a fare da protagonista è l’assenza dell’essere umano. Niente moumetalità dei film colossal post-apocalittici a cui siamo abituati; l’ambientazione ha qualcosa di intimo. Quella di Gian Maria Tosatti è una visione proiettata sul futuro, ma ambientando in un passato che conosciamo fin troppo bene. Forse è così, riusciamo a intravedere ciò che potrà attenderci il futuro solo sulla base di ciò che abbiamo imparato nel nostro passato. 

STORIA DELLA NOTTE E DESTINO DELLE COMETE

Attraversando gli spazi delle Tese delle Vergini si sente il contrasto dell’alternanza tra ambienti freddi e desolati e quelli più “caldi”. Lì in quella casa che poteva essere identica a quella di mia nonna, gli oggetti sono ancora lì: il telefono a rotella degli anni settanta, le porte scricchiolanti, il pavimento beige a quadretti in finto marmo, la camera da letto spoglia, l’alone del crocefisso che è stato rimosso dalla parete ma che ha lasciato un’impronta del tempo nel muro. A tutti racconta fin troppo bene la storia di una persona cara che non c’è più, e si fa sentire con prepotenza la presenza di un’assenza.
E da lì, dall’alto di quella casa, ci affacciamo alla finestra e vediamo l’interno di una fabbrica vuota. Scendendo possiamo attraversare la sala e soffermarci da vicino sui dettagli. É Una vecchia filanda che ha vissuto tanti anni di vita e raccolto il lavoro e il tempo di tante persone. Le postazioni usurate con banchetti di legno e macchine da cucito consumate, le vecchie lampade da soffitto impolverate, gli sgabelli usurati raccontano una condizione precaria e di proletariato del nostro passato storico. Racconta il lavoro di tante persone, persone che oggi non ci sono più. Così anche quel lavoro non c’è più: le fabbriche sono abbandonate, il progresso ha portato all’evoluzione dell’industria.
Il tema del progresso si lega inevitabilmente all’obsolescenza.
Si entra così nella seconda ed ultima parte del nostro viaggio. Vediamo delle scintille, comete, forse lucciole, che si spengono nell’acqua.
La chiusura è idilliaca, torniamo alla natura, alla vita. La nostra vita che continua ad esistere, come le comete. Siamo luci che attraversano il cielo.

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