di Ludovico Riviera
È un compasso cinico quello che traccia la trama circolare del film d’esordio di Pietro Castellitto (classe 1991, figlio d’arte di un padre reduce da un ottimo film, Il Cattivo Poeta, qui da me recensito) che, nelle triple vesti di regista, sceneggiatore e attore, dimostra di essere all’altezza del ruolo.
I Predatori (2020) è un film bizzarro, a tratti stiloso, irriverente, non del tutto riuscito benché certamente godibile.
Cinico, appunto; Castellitto ha studiato filosofia, e trasfonde questa sua specializzazione nel personaggio che interpreta: Federico Pavone è un giovane assistente follemente appassionato di Nietzsche. Proveniente da una famiglia altolocata, di ottima borghesia romana, lo vediamo compiere gesti inconsulti, e pronunciare discorsi strani per tutta la pellicola. Al limite del cringe, non si capisce mai se Federico è forse addirittura scemo: sicuramente folle, è una sorta di specchio che riflette le idiozie del mondo che lo circonda, e la sua ingenuità è quella rassegnata di una generazione, la nostra, tradita, nietzschana per forza di cose.
E tutto quel mondo è effettivamente ambiguo, pazzoide, composto di personaggi chiusi nei loro tic, nelle loro apprensioni, che non comunicano con gli altri se non attraverso mere convenzionalità in costante processo di sfaldamento comico, per il giubilo di noi pubblico sadico.
Così suo padre è un importante medico, sposato ad una regista cinematografica oberata di problemi sul set: i due non hanno un’ottima relazione, e frequentano una serie di parenti e amici caratterizzati da caricaturali manierismi (preparatevi per l’esplosiva scena della cena al ristorante) capaci di non banalizzare, ma di descrivere.
Il vero filo conduttore del film, una commedia grottesca, è però l’incrocio tra la famiglia Pavone e quella dei Vismara, coatti di Ostia e fascisti mezzi criminali (i maschi): la madre dei fratelli Carlo e Claudio, armaioli, reduce da una riuscita estorsione, passeggia tutta scossa e, attraversando distrattamente la strada, viene investita sotto gli occhi del dottor Pavone, che la rianima salvandola. Il riconoscimento di Claudio, che va a trovare il medico nel suo studio mentre Federico è in bagno, sfocerà in ulteriori complicazioni culminanti in una bomba, la tomba di Nietzsche, e due esecuzioni: una incompiuta e l’altra, invece, comicamente riuscita.
Come dicevo all’inizio, la trama è circolare, inizia e finisce col volto sardonico di un personaggio misterioso che forse rappresenta la chiave di lettura della storia intera, e ci arriveremo.
Il film ha diversi meriti: tenta di non risparmiarsi, e costruisce un umorismo caustico rendendo divertenti situazioni che, se incontrassimo nella vita reale, tratteremmo magari con orrore.
Provandosi in continui ribaltamenti di senso, i paradossi rilasciati ad alta velocità riescono a sollevare un polverone umoristico senza però rendere i personaggi necessariamente ridicoli: per quanto idiosincratici, infatti, essi sono quasi maschere teatrali, che percepiamo come intrappolate in un ruolo sul quale hanno ben poco controllo. Non si prova disprezzo per il manifesto nazifascismo dei Vismara, né per l’ostentazione radical chic dei Pavone: si ha invece l’impressione rappresentino una piccola parte di noi, a fatica intrappolata dai tentativi di decenza necessaria per il quieto vivere sociale; decenza che manca pressoché del tutto ai nostri personaggi.
Confezionato con una tecnica piuttosto sovrabbondante (la fotografia e lo stile registico sono pregni delle influenze di Sorrentino e ci sono delle simmetrie con Wes Anderson: si vede che il giovane Castellitto vuol far vedere di saper girare, e calca la mano) non sempre funzionale al racconto, ma talvolta molto efficace.
Il principale problema del film è quello di essere eccessivamente ambiguo, volatile, un po’ fine a sé stesso. Non ha una vera e propria morale, se non quella di voler mostrare le fragilità incrociate di due famiglie, apparentemente diversissime, che si arrovellano per tirare avanti la baracca come riescono o preferiscono.
Il titolo dell’opera, “I Predatori” ci fa chiedere chi siano questi predatori, se effettivamente si riferisca ai personaggi principali o non sia piuttosto un’oscura allusione a qualche tema che ora mi sfugge. Il sospetto, infatti, è il seguente: avendo identificato almeno qualche possibile indizio a citazioni o riferimenti filosofici, lo spettro di Nietzsche come nume tutelare di Federico Pavone, con la sua distruttiva passione e l’incongruenza apparente del metalinguaggio teatrale del film (talvolta i personaggi parlano fra di loro ma pare si rivolgano a noi), forse la storia è da intendersi come una metafora dell’imbroglio recitativo che ci costringe a rimanere entro i ranghi di vite sostanzialmente ipocrite: fascismi inerziali, come per la famiglia Vismara – introdotta attraverso il compleanno della moglie di Claudio, giovanissima e forse ingenua, disinteressata madre trentenne sinceramente innamorata del marito nonostante i suoi evidenti difetti – i quali però alla fine si risolvono in percorsi di emancipazione impossibili, invece, alle famiglie borghesi. Esse, pur perfettamente a loro agio in un contesto altolocato, intellettualmente emancipati, diventano comunque vittime delle circostanze – appaiono senza scampo.
È infatti è un altro compleanno (quello della cena) a introdurli, quello di una anziana signora senile, la nonna del protagonista, come a preludere che un privilegio ereditato è già qualcosa di morente, se ci si limita a crogiolarcisi dentro: ogni tentativo giovanile di rinnovare il merito, l’inventiva e l’avventatezza, sono guardati con sospetto o tuttalpiù ignorati.
Ed è la furbizia strisciante propria di chi imbroglia la qualunque al netto dell’estrazione sociale che trionfa. Il film si chiude con la proiezione (film nel film) della pellicola della madre di Federico, ove incontriamo nuovamente il personaggio del truffatore iniziale, colui che imbroglia la madre di Claudio nell’incipit, che chiude così il cerchio: presentatosi ai Pavone, è finalmente infiltrato ai livelli più alti, un ghigno di crudele consapevolezza e compiacimento nel giocare persone che, grazie ai loro incredibili mezzi possono vedersi proiettati in sala, osservarsi dall’esterno ma, nonostante ciò, permettersi il lusso di non comprendersi, e venire quindi fregati.
Si ride, ma ci si ritrova a sperare di non essere né i Vismara, ai quali si giustifica il credo politico, compensato da una genuina ignoranza da subalterni; né i Pavone, persone realizzate ma altrettanto inconsapevoli dei loro traumi inespressi.
Proviamo una forma di imbarazzato affetto per entrambi, che fa il paio con la pizzicante impressione di non aver capito proprio tutto del film appena terminato, anzi: a stoltezza e imbarazzo si aggiunge la paura di essere stati presi a modello per qualcuna di queste maschere folli, grottesche, ma anche così incredibilmente normali, quasi quotidiane.
Quasi noi, predatori e predati, in uno stagno afoso nel quale non resta che ridere di noi stessi.