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L’eroica umanità di Tano D’Amico

20 Aprile 2017
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di Cristina Ruffoni
“Bunuel, quando gli chiesero perché faceva film, rispose una volta che era per mostrare che questo non è il migliore dei mondi possibili. Diane Arbus faceva fotografie per mostrare qualcosa di più semplice: che esiste un altro mondo…”
Susan Sontang – Sulla fotografia

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Molti critici e storici della fotografia italiana sostengono che fu a partire dagli anni ottanta che la nuova generazione di fotografi del dopoguerra, quali Oliviero Barbieri, Mimmo Jodice, Gabriele Basilico, Guido Guidi, Mario Cresci, Luigi Ghirri, ha inaugurato una nuova filosofia e consuetudine allo sguardo, Arturo Quintavalle scrive di una riflessione sul fare immagine e sul rifiuto del paesaggio modello  Alinari,  in cartolina, per inaugurare una ricerca dell’Italia dei margini, quella sostanzialmente esclusa. In realtà, questo nuovo codice visivo, un’etica della visione, la sperimentazione di nuove immagini per raccontare un paese che cambia, iniziano molto prima con fotografi come Uliano Lucas e Tano D’Amico, considerati i testimoni dei fatti e i militanti della stampa del 68’ e del 77´ e non solo.

Gia’ nel 1943, era uscito un annuario Fotografia a cura di Ermanno Scopinich, che nella nota iniziale precisa : « …Almeno tre generazioni di fotografi hanno svolto per anni il tema delle pecore al pascolo, dei riflessi, dei tramonto  sul lago, delle onnipresenti monache con le vesti al vento, convinti che solo soggetti di questo genere fossero adatti ad essere interpretati ´artisticamente’ senza preoccuparsi del mondo, della vita, della mentalita’ che cambiava…. ».

Una rivoluzione esistenziale ed iconografica accade in anticipo nel  cinema di Rossellini, di De Sica, di  Zavattini e soprattutto di Visconti, che nel 43´ sta girando Ossessione, anticipando una parte delle lezioni stilistiche del neorealismo. E a sud, risalgono i corrispondenti fotografi come Robert Capa, pronti a riprendere i pastori siciliani, i bambini orfani, le madri vedove di Napoli, le macerie accumulate del paese sconfitto. Nel dramma, s’innesca un recupero della realtà disarmata ma ‘significante’.

Nell’ immediato dopoguerra escono con il nuovo Tempo Illustrato, Oggi e L’Europeo diretto da Arrigo Benedetti, che contiene la realtà visiva di Omnibus e che più  tardi porterà all’ esperienza dell’Espresso. Nel ’50 seguirà Epoca di Mondadori, per lunghi anni attenta a sviluppare una linea coerente di giornalismo fotografico.

Tano-DAmico-Ragazza-e-carabinieri-Roma-1977Il segnale e uno dei molteplici simboli del cambiamento e della mutazione dei rituali collettivi,  e’ la nascita delle  fototessere  che si fanno nelle cabine, che sostituiscono gli studi dei ritrattisti, mentre  i giornali illustrati iniziano la loro battaglia con il dilagare della televisione.

Le riprese in diretta finiscono per mettere all’angolo le immagini fotografiche, i fatti nei rotocalchi appaiono e sembrano in confronto,  archiviati e scaduti e i settimanali tipo L’Espresso o Panorama, con molto testo e poche foto isolate, decretano il declino del reportage in Italia.

Alla fine degli anni ’60,  l’avanzata delle tensioni sociali, i nuovi protagonisti delle manifestazioni: operai, studenti e femministe,  l’oscura cronaca degli attentati e l’avanzata del terrorismo, richiedono una rinnovata carica operativa e una differente visione, come quella del fotografo Tano D’Amico.

La conseguenza della fotografia, come suggerisce Susan Sontang, e’ che ci da’ la sensazione di poter avere in testa il mondo intero, ma a D’Amico interessa una nuova e particolare realtà, che al di là delle motivazioni politico sociali di quel preciso contesto storico e nonostante le accuse di essere fazioso e di parte, non si poteva  più’ ignorare. Quella parte della società, relegata e confinata nelle periferie, offuscata in molti stereotipi del passato, si raduna e cammina per le strade del centro, invade  le città, occupa Università e fabbriche e le immagini fortemente cercate da Tano D’Amico, forniscono testimonianze di questo cambiamento, rendono palpabili quei volti, amplificano quelle grida, stabilendo,  prima ancora di una conoscenza particolare e consapevole dei fatti di cronaca,  un forte legame umano del fotografo con i suoi soggetti e le loro storie raccontate.

Una serie di fotografi a livello internazionale  (Stephen Shore, Lewis Baltz, Michael Schmdt, Paul Graham, Thomas Struth eccetera) consapevolmente si fece poi carico di scoprire cosa c’era intorno ai centri storici. Le periferie sistematicamente ignorate, ritenute non adatte alla rappresentazione rassicurante, in contrasto con l’estetica dell’equilibrio e dell’armonia, divennero soggetti ricorrenti.

Tano D’Amico elegge come suoi protagonisti le persone, anche quando sono scene in movimento come durante una manifestazione o in un luogo particolare come il carcere, sono i volti, i gesti, le espressioni ad occupare e determinare  lo spazio, a invadere il luogo, con quel taglio orizzontale che ricorda una stele di Canova, una sequenza cinematografica o lo svolgersi della tragedia nel teatro greco.

I giornali, le testate,  si affidano a lui, perché Tano D’Amico,  misteriosamente,  e’ sempre stato nel luogo e nel momento dove gli avvenimenti  accadono, nel vortice dello svolgimento, sempre in anticipo, con un preavviso minimo, tempestivamente presente, nel centro del mirino, per correre incontro alla Storia. A coloro che allora e ancora adesso, cercano delle spiegazioni e delle risposte, lui risponde che non ha mai creduto ai detentori delle certezze e delle verità assolute  e che soprattutto la realtà non esiste ma si costruisce dall’ esperienza diretta, come quelle sue  nuove immagini dell’esistenza, che irrompono, che squarciano e sbilanciano le nostre convinzioni e il corso della Storia.

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I derelitti, i ribelli, gli emarginati, gli spostati, i sofferenti e i dissidenti,  diventano i suoi compagni di viaggio, oltre che,  essere scelti per queste inedite e diverse fotografie, affollate da carcerati, prostitute, giovani, anziani, bambini, disoccupati, zingari, per chi spesso, le convenzioni sociali possono risultare insopportabili, creature divenute incompatibili ed estranee a un sistema inceppato dai pregiudizi sociali, dalle false tradizioni e dalle regole del mercato.

La stessa inquietudine e il rifiuto all’obbedienza nei confronti non solo delle Istituzioni e ai patriarchi detentori del sapere ma anche verso il partito politico; una nuova autonomia di pensiero, di libertà’ di scelta e indipendenza che irrompono in un senso di appartenenza a una nuova cultura e un diverso modo di vivere che prende le debite distanze dalle generazioni passate.

Le fotografie di Tano D’Amico sono limpide, cristalline, luminose, si offrono allo sguardo, eppure sono anche misteriose, enigmatiche, non liquidabili su un’unica interpretazione, sospese sul baratro del pericolo, del rischio, dell’avventura, ambiguamente atemporali, anche se testimonianze di certi movimenti e di un periodo storico precisi.

 Quelle immagini, anche le più’ drammatiche,  stridenti, ancora oggi danno speranza, serenità,  anche quando lui fotografa la criticità, la sofferenza, la violenza. D’Amico, pur schierandosi dalla parte dei più deboli e dei dissidenti,  non giudica mai, senza strappi, senza inesorabilità, senza indignazione, per innescare un corto circuito emotivo con il soggetto, un impatto d’interrogazione della realtà, ancora prima delle esigenze della cronaca e  dell’urgenza dell’informazione, con la rara capacità di non mostrarsi.  Verità e bellezza perdurano alla base della disciplina fotografica ma tutti i soggetti di D’Amico, hanno una stessa qualità eroica: l’umanità.

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La miccia innescata del cambiamento di allora, alla fine degli anni ’60, non e’ solo di carattere politico e sociale ma anche antropologico e culturale. Oltre alla Roma di Schifano, Pasolini e Antonioni, D’Amico, lo intercetta e  ritrova per le vie di Milano, dove Fontana, Sottsass, Munari e molti altri,  fanno parte di una rivoluzione poetico visiva  di un’Italia che cambia sempre piu’ velocemente,  il modo di abitare, d’immaginare e di comunicare. Queste ricerche ed esperienze, come influiscono e condizionano le scelte compositive e il modo d’intendere la fotografia?

Sono state fondamentali soprattutto per l’incoraggiamento alla liberta’ espressiva e formale. Un sasso eletto da Munari come centro compositivo, il taglio rivoluzionario di Fontana, la poltrona morbida e mobile come un sacco, l’innovazione cromatica di Sottsass, hanno fornito il segnale: Ricominciamo da capo! La Milano di allora e non solo quella delle gallerie d’arte, ha avuto il merito di legittimare  una critica alle immagini, pratica e consuetudine che si ripercuote e si espande in tutte le forme creative e linguistiche in particolar modo per la fotografia. L’innovazione avviene nei teatri, nei laboratori, negli studi e poi per le strade, prima ancora che nelle pagine dei saggi e dei trattati.

Nell’opera: “La realtà e lo sguardo, Storia del fotogiornalismo in Italia”, Uliano Lucas e sua figlia Tatiana Agliani, testimoniano l’esigenza di raccontare la relazione complessa tra il reale e la sua messa in immagine, il rapporto tra l’immagine fotografica e quella di documentazione,  in relazione al sistema d’informazione, accusando di profonda arretratezza e sottovalutazione il ruolo della fotografia in questo ambito, nonostante la coscienza e la consapevolezza del fotoreporter del proprio ruolo sociale.

Anche per chi era fuori da questo meccanismo perverso, come si svolgevano i fatti realmente?

Non si puo’ ridurre tutto alla mentalita’ imperante e al mancato riconoscimento del fotoreporter, l’occultamento del suo  valore e l’oblio della  sua missione.

Il criterio di selezione dei redattori e lo stile omologante delle testate, erano legati e condizionati da precise  esigenze d’immagine e commerciali. Era impensabile allora, associare o accostare certe fotografie “scomode e di cronaca” alle immagini rassicuranti e festanti  della pubblicita’. La nuova lavatrice di fianco all’autonomo armato! L’iconografia doveva essere idonea e consona a una societa’, che sembrava voler cambiare solo il modello d’automobile o detersivo. Informare, indagare,  era  secondario, agli antipodi allo scopo d’intrattenere ed invogliare al rito del consumismo.  

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Fondata da Robert Capa, Henry Cartier Bresson, George Rodger, David Seymour e William Vandivert, nasceva nel 1947 l’agenzia Magnum Photos, prima ‘cooperativa’ in cui I fotografi, proprietari del loro lavoro, potevano proporlo liberamente a diverse testate. Memorabili rimangono I reportage sulla guerra in Vietnam, sulla carestia del 1951 in Bihar (India) e sulla Corea del 1952. In Italia, a parte Mario Dondero e pochi altri, forse e’ mancata una storica rivista come Life, anche se oggi, ci sono operazioni che vanno in senso opposto, come nel caso dell’”Europeo” di Daniele Protti, che però ha chiuso nel 2013, o del magazine trimestrale “Il Reportage”di Riccardo Di Gennaro, basato interamente sul reportage e realizzato con pochissimi mezzi che invece resiste. I fotografi continuano comunque a essere chiamati a raccontare storie, ad essere testimoni, anche se in presenza di drammi come quello dei migranti, aleggiano omertà, silenzio e censura. Anche con forme e strumenti più diversi, la necessità a raccontare e’ destinata ad esaurirsi?

Senza togliere o sminuire il singolo valore o talento di questi fotografi, perdura una mitologia sull’epopea  della Magnum e sull’ irreprensibile obiettivita’  degli interventi e l’onesta’ intellettuale degli schieramenti. A Parigi, per esempio,  nel ’61, c’e’ stato un vero e proprio massacro, un intervento violento nelle  banlieues  da parte della polizia e delle forze dell’ordine e il governo francese ha insabbiato tutto, con la complicita’ e l’indifferenza dei  così detti fotografi prestigiosi e ufficiali. In Israele, poi, si sono prese posizioni, veicolate immagini e dirottate  informazioni, non sempre con coerenza agli avvenimenti accaduti ma secondo una logica di parte, che distingue tra palestinesi o israeliani. Le immagini della disperazione dei migranti, sono un altro tabu’ e pagina vergognosa da occultare e la ripetizione e il perdurare dei naufragi, non compromette o mette a repentaglio la logica  di pacato ed efficace mascheramento dei media e dell’informazione visiva.

Hai sempre sostenuto che insegnare la tecnica  in fotografia e’ secondario, anche se I tuoi allievi sembrano concentrati sulla sublimazione del mezzo e sugli  scontati vantaggi del digitale e delle nuove tecnologie, a differenza della generazione precedente che riconosce, come Gabriele Basilico,  il ruolo di maestro a un fotografo come Walker Evans, che della Farm Security Administration, la missione fotografica statunitense concepita dal presidente Roosevelt durante il New Deal,  era stato il protagonista indiscusso, insieme a Dorothea Lange e Ben Shahn. Una dimensione etica oltre che estetica del suo lavoro, un amore e un rispetto per le comunita’ sofferenti e I luoghi emarginati, una grande lezione di arte e di umanita’. I giovani fotografi però si allontanano dalla fotografia impegnata, per rifugiarsi nella carriera espositiva e nella narrazione autobiografica?

Nessun fotografo, anche il piu’ cinico e disinteressato,  puo’ sottrarsi all’esempio professionale e al precedente coraggio di un fotografo come Walker Evans o come Robert Frank, che ho avuto la fortuna di conoscere e che definiva le sue fotografie come “falsamente sgrammaticate” ma l’apparente noncuranza non ha mai pregiudicato il rigore formale e la sua immensa umanita’. Molti validi e coraggiosi fotografi sono oggi dimenticati, come Gabriella Mercadini, che sarebbe assolutamente da imitare per coerenza ed intensita’ interiore  di ricerca.

Molte tue fotografie, sembrano avere un’impostazione pittorica, come quella: I funerali di Giorgiana sotto la pioggia, che ricorda il corteo del  Quarto Stato o Potere ai cittadini, dove i caschi occupano tutto lo spazio fisico e visivo e una donna nera, pare annegare in quella piena formale, che rimanda alle forme pregnanti e solide di Picasso nella gamma  infinita dei grigi. Come si concilia lo scatto umano e la razionalità lucida della composizione formale?

Hanno paragonato una mia immagine addirittura  a un quadro di Delacroix o a una sequenza di Cassavetes. Le letture, le interpretazioni e I rimandi possono essere senza fine. Ogni fotografo inconsapevolmente o con precisa intenzionalita’, carica e trasfigura le sue immagini, a seconda del repertorio di conoscenza, di esperienze e di passioni che determinano e formano il modo di guardare e scattare, ogni volta diversi, pur nella riconoscibilita’  di uno stile e nel taglio compositivo ricorrente. Non puo’ esistere la purezza incontaminata della fotografia.

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Attualmente, c’e’ un euforico ritorno in arte, nel design e nella moda,  degli anni ’70, un esempio,  è la mostra dove hai partecipato sul ’68 a Genova. Oltre alla nostalgia di un fermento irripetibile, nonostante la spietatezza e l’orrore della violenza di allora, è possibile, al di la’ di una revisione storica, avere un atteggiamento meno superficiale sull’onda di questa retromania?

Un vantaggio e un traguardo importanti in questo recupero, e’ lo sdoganamento e la libera circolazione di molte immagini, come le mie fotografie, che allora erano censurate e non potevano circolare. Oggi diamo tutto per scontato, ma all’epoca alcuni di noi, erano tacciati come pericolosi sovversivi e potevano lavorare solo in un circuito limitato e particolare. In musica e nel cinema, perfino in letteratura, c’era stata un’accelerazione in avanti come temi e contenuti, la fotografia in Italia, languiva nei rotocalchi o divampava nei ciclostili e sui giornali del movimento della rivolta’.

Pubblicazioni e progetti futuri?

Non smetto mai di fotografare e il tempo del racconto non e’ mai finito, perche’ se la fotografia viene consacrata alla celebrazione, si cristallizza e viene confinata nel passato, invece, il  piu’ bel complimento che mi e’ stato fatto, e’ che quei volti, risultano vivi, mobili, parlanti, testamento di un’epoca ma anche documento di una continua esperienza collettiva.

*foto autorizzate da TANO D’AMICO

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