di Cristina Ruffoni
“Non c’è tempo per le donne di dichiarazioni: hanno troppo da fare e poi dovrebbero usare un linguaggio che non è il loro, dentro un linguaggio che è loro estraneo quanto ostile”
Ketty La Rocca
Dallo sconfinamento trasversale dei generi, alla molteplicità dei temi affrontati, includendo il percorso anomalo e non convenzionale di studio e di apprendimento tecnico e teorico, la fotografa Bruna Ginammi dimostra fin dall’ inizio, la necessita’ e l’urgenza di superare gli stereotipi e conquistare un’autonomia, anche a rischio di fasi critiche e solitudine professionale, che inevitabilmente possono insorgere nelle scelte consapevoli e rischiose.
Ricorda l’artista Ketty La Rocca, durante il suo insegnamento, dell’arrendevole resa ai condizionamenti, specie da parte delle bambine, per far contenta la maestra; “Quella ostinata fedeltà dei ragazzi ai modelli, agli schemi che hanno assorbito e dai quali dovrebbero uscire”. L’irrequieta Bruna Ginammi risulta invece poco incline all’ omologazione dei ruoli sentimentali e professionali, assimila per poi destrutturare i codici ed innesca ribaltamenti di senso, lavorando prima sul corpo e poi sullo spazio urbano, fino a tradurre la visione in un’immagine più essenziale e minimalista ma mai tardo concettuale o ambiguamente pittorica.
Un rigoroso ecclettismo, oggi divenuto pratica omologante tra i più giovani, che le permette di non cedere il passo al tracotante e stucchevole manierismo, all’ iperrealismo Pop cinematografico o alla narrazione trash horror, fintamente trasgressiva e con velleità socio psicologiche, tendenze imperanti in molte fiere e gallerie di fotografia oggi. Bruna Ginammi non rinuncia ogni volta, a perseguire l’interrogazione tra il se’ e il mondo, come quando trasforma un edificio in uno strumento indagatore dei meccanismi segreti della sua mente, concentrandosi sul perimetro interno e non semplicemente sulla facciata, come una sonda nel terreno o un palombaro in fondo al mare.
Bruna Ginammi stessa ammette che inevitabilmente, il confronto cambia scenario per un progetto o può mutare soggetto per committenza ma rimane fedele ad una rinnovata e ostinata ricerca d’ identità, per non dare nulla di scontato, per rimettersi faticosamente ma con euforia costante in gioco, nella ricerca, come nella vita.
L’utilizzo da parte di molti pittori, performer e videoartisti del linguaggio fotografico e l’era digitale, hanno fatto defluire una grande quantità di pseudo professionisti, che cercano d’imitare Gerhard Richter, che rende pittoriche le sue visioni fotografiche figurative e artificiali i quadri astratti dipinti o rifacendo un percorso simile a quello di William Kentridge, dove cinema, disegno e scrittura si mescolano con potenza alla fotografia.
Bruna Ginammi intuisce e prevede che il multimediale e l’esaltazione del digitale, non possono conferire un’ identità o delle idee latitanti e si concentra sull’ intensità espressiva e narrativa della poesia, in una serie di ritratti dei suoi protagonisti milanesi come Ada Merini, un concentrato ravvicinato di energia e luce da far emergere e far esplodere, pubblicati poi dall’ illuminato Vanni Scheiwilier nel 1991.
Anche quando Bruna Ginammi espone il suo corpo, nella rappresentazione del mito, non e’ come mezzo per attirare l’attenzione sul proprio lavoro, ma per mettere in relazione il proprio mondo con altre entità, mescolando i termini e lasciando in sospeso la lettura definitiva, come Roland Barthes definisce il mito, come un messaggio che può essere tutt’ altro che orale e costituito anche da scritture o da rappresentazioni: “Il discorso scritto, ma anche la fotografia, il cinema, il reportage, lo sport, gli spettacoli, la pubblicità, possono servire da supporto alla parola mitica”.
Nonostante le numerose mostre personali e collettive, il premio Europen Kodak Panorama Award, agli incontri Internazionali di Fotografia ad Arles e la partecipazione nel 1995, per la Biennale di Venezia al Padiglione Italia, Bruna Ginammi evita la ripetizione di un genere o di un tratto riconoscibile, per inoltrarsi nella sua personale ricerca e nella sperimentazione di nuovi linguaggi. Testimonianza dei suoi molteplici ambiti d’interesse, come la psicologia, l’antropologia e la semiotica, e’ la serie dedicata alle famiglie.
“Le immagini sono ricordi, i ricordi si accavallano, i ricordi inediti non esistono”, scrive Ketty la Rocca, con la quale Bruna Ginammi, ha molti aspetti in comune, per entrambe risulta chiaro l’interesse per le foto di famiglia: esse sono caratterizzate da una natura duplice, in cui la storia privata e quella collettiva si fondono. Le foto di famiglia corrispondono a conservare le tracce dei ricordi privati, della dimensione intima, parallelamente servono ad evidenziare negli atteggiamenti e nelle pose, gli stereotipi sociali e le convenzioni culturali. Come ha chiarito Pierre Bourdieu in Un art moyen, Essays sur les usages sociaux de la photographie (1965), la pratica fotografica esiste in funzione della dimensione familiare. Per questo progetto, Bruna Ginammi, come La Rocca, per sottolineare il valore collettivo del rito fotografico, non utilizza scatti appartenenti alla propria vita vissuta. Ricordando la particolare intensità di certi ritratti d’interni di Diane Arbus, non per la stranezza o l’ originalità dei soggetti ma per la medesima volontà di stabilisce una corrispondenza silenziosa con coloro che smettono di essere estranei, in un approccio ravvicinato ma mai invasivo, instaurando una giusta distanza, che non separa ma lascia spazio ad una quotidianità non addomesticata.
Per Roland Barthes osservare una fotografia e’ un’esperienza intimamente legata all’idea della morte e il lavoro Decomposizione ( esposto e a cura di Daniela Palazzoli nel 1955) amplifica questo modo di sentire. La frutta e la verdura fotografati, hanno perso la loro polposa e candida bellezza e in decomposizione, con evidenti strati di muffa, ci traghettano attraverso una lenta ma istantanea trasformazione, dove tutto cambia e si modifica, un processo alchemico sulla materia, che diventa altro. Anche Irving Penn ha utilizzato come soggetti di Still Life, frutta e verdura e i mozziconi di sigarette, i frammenti diventano cosi’ il vero campo, dove esercitarsi prima di affrontare la complessità mutevole dei corpi. Lo stesso Robert Mapplehorpe, indica come una delle sue migliori fotografie: Fish, del 1985, con un pesce gia’ putrido e puzzolente, disteso su un foglio unto di giornale. Come per Bruna Ginammi, non si tratta di estetismo decadente o sublimazione del degrado ma di un fermo immagine che sospende e rende protagonista il tempo.
Bruna Ginammi, non si compiace neppure nell’uso esclusivo del bianco e nero. Uno dei suoi lavori, tra i più articolati e rarefatti, e’ reso con colori fluorescenti, pallidi ma densi, che creano profondità e illusione, dove c’e’ un repentino ritorno alle cose stesse, che viene subito contraddetto nell’ astrazione, espressa in modo surreale dall’ immagine del copriletto azzurro, che sembra perdersi senza confini e pareti in un lattiginoso e spugnoso mare chiuso in un angolo della stanza.
Ritornano in mente, la leggerezza dell’impegno e il presupposto imprescindibile, del perenne sperimentatore novantanne Nino Migliori, di scattare non per immortalare la bella fotografia ma per la passione inesauribile di farlo e la rivendicazione di un’autonoma possibilità di comunicazione e di una libertà espressiva, che Ketty La Rocca continua a trasmettere, anche dopo la sua prematura morte. Come artista e come donna, Bruna Ginammi, appartiene a una particolare, anche se ristretta generazione di fotografi, che conferma e rivitalizza questi esempi, poichè, nonostante questo incerto presente, non rinuncia alla sua comprensione e analisi.
- In una lettera sulla sua ricerca, Ketty La Rocca aggiunge una nota specifica con un profondo significato sulla sua posizione come donna: “Ancora, in Italia almeno, essere donna e fare il mio lavoro e’ di una difficoltà incredibile”. Cosa e’ cambiato e rimasto immutato per Bruna Ginammi rispetto allora? Nonostante la crisi, il degrado intellettuale e il provincialismo, una rete di sostegno di collezioniste, teoriche, editrici e galleriste, supportano la ricerca fotografica e le loro autrici, come Donata Pizzi e Giovanna Chiti. Qual è la tua opinione sul presente e il futuro in questo senso?
Grazie anche all’esempio di Ketty La Rocca, il fare dell’artista oggi, e’ ampiamente riconosciuto e ci sono donne che si sono affermate, riuscendo ad entrare nel mercato dell’arte, facendosi conoscere a livelli internazionali.
- Uno dei tuoi prossimi progetti, e’ una serie di ritratti a persone anche sconosciute che incontri per caso in strada, con tatuaggi e piercing. Oltre che una ricerca formale e simbolica, cosa trapela dal corpo e dai volti segnati di questi giovani?
Fermo le persone che incontro casualmente, devono avere piercing e tattoo; questo progetto si chiamerà: “Atlante Umano”, perchè raccoglie le mappe del cuore. Ogni tattoo, e’ legato misteriosamente a diverse persone, che testimoniano cosi’ la loro “appartenenza”, a coloro che sono state a loro vicine.
- Nel tuo lavoro sulle finestre, metti in moto un corto circuito tra interno ed esterno, individuo e società. Sono uno sguardo a ritroso dall’ interiorità proiettata verso il mondo, senza interruzioni o cesure. Anche l’architettura e’ intesa come una mappa, d’indagine e di esplorazione per entrare in relazione con il se’ e il tessuto urbano, un legame, che se non si rivitalizza, rischia di risultare asettico e deteriorato. L’ultima Biennale di Architettura, ha come temi un rinnovato impegno comunitario e sociale che auspica la fine delle cattedrali monumentali delle archistar. Qual’e’ il rapporto iconografico, visionario e psicologico che s’instaura attraverso la fotografia con la città, con lo spazio?
Provengo dalla fotografia che si esprime nel ritratto, infatti, in questo lavoro e approccio, immagino e considero la struttura architettonica, il palazzo, come se fosse una persona, che vive, vede e può sentire. Con il titolo: “Perimetro vivente”, esploro i sentimenti dei palazzi milanesi, regalo a loro, la possibilità di parlare di emozioni.
- Nella mostra recente all’ acquario Civico di Milano sull’ acqua, e’ esposta anche una tua fotografia: “Quando i muri diventano strade”, dove riprendi un punto della darsena, che si trasforma, attraverso la trasparenza dell’acqua,I riflessi e i detriti sul muro, un inedito luogo plasmato e ridisegnato dalla materia. Che posto occupa la materia nella tua ricerca?
Questo lavoro in particolare, e’ un’immagine della Darsena, per precisione, uno scorcio preso sotto uno dei ponti, che guardano il nuovo porto milanese. Le ombre, il tessuto della pelle della terra mi e’ sembrato familiare, ricorda le rughe degli esseri umani, mi rammenta il mio progetto realizzato sui volti, per I ritratti dei poeti milanesi, dove la vicinanza della macchina fotografica, rendeva il viso un’astrazione grafica ma anche un sedimento di materia in bianco e nero.
In “Quando i muri diventano strade”, c’e’ l’esplorazione e la ricerca incentrate sulla materia, che si e’ liberata dalla gravita’, un’immagine scattata verticalmente che riprende il muro, il quale, ponendo la stessa immagine orizzontalmente, si fa strada.
Questa idea, nasce dalla condizione storica degli immigrati, la “vecchia Europa”, davanti al fenomeno dell’ immigrazione, ha risposto erigendo dei muri, personalmente, con l’ausilio del mezzo fotografico e dello strumento dell’immaginazione, ho ribaltato il senso e I termini, trasformando I muri dei ponti del porto milanese in strade, con l’intento di abbattere i muri con I loro conflitti, per lasciare che l’essere umano avanzi, almeno idealmente, in un cammino libero e di pace.
Questa fotografia, appartiene al progetto: “Panta Rei”, immagini sui Navigli, che ho compiuto in Marzo, camminando e partendo dalla Darsena fino al fiume Ticino, mossa da un grande desiderio, di mettermi alla prova fisicamente e restituire con la fotografia la bellezza dei luoghi, seguendo la legge del maestro Thich Nhat Hanb: “Pace ad ogni passo”.
- L’insegnamento in tempi e contesti diversi rispetto a quello claustrofobico di Ketty la Rocca, può essere ancora oggi, un arricchimento reciproco umano e sperimentale, soprattutto quello con i bambini, come e’ capitato a te, in passato? La Rocca insisteva sul valore e sull’ efficacia dell’intuizione nell’ infanzia.
Si, stare in contatto con I bambini, e’ davvero arricchente e devo confessare, che intimamente sono rimasta una bambina, che ogni giorno, esploro il mondo, come se fosse il primo giorno. Il segreto, e’ quello di essere sempre nella condizione perenne di voler imparare, conservare il desiderio di scoprire sempre il mondo, come suggerisce Socrate….Consapevoli di non sapere, con umiltà e coraggio, il coraggio di seguire i propri sogni.
- Luigi Ghirri ripeteva che si guarda quello che gia’ conosciamo e cosi’ metteva in scena, accostando elementi contrastanti, una realtà artificiale atemporale, poichè il passato si scioglie in un eterno presente, che non prevede futuro. Come ti confronti con la finzione, con il paradosso e il grottesco? Riesci a restituire a loro forma e contenuto nelle tue composizioni o semplicemente preferisci ignorarli?
Tra I concetti di finzione, il paradosso e il grottesco, contrappongo quello di immaginazione, questo termine e consuetudine a me molto affine, che contiene intrinsecamente nella sua sfera, fantasia, sogno e utopia. Ma anche la finzione, l’invenzione nel senso di trovare quello che non c’e’ nella realtà, e’ uno strumento più vicino al mio “fare” e al mio modo di sentire e percepire il mondo. Fin da bambina, mi e’ sempre piaciuto vedere oltre la realtà, per costruire castelli di sabbia e universi paralleli, per poter essere chiunque o qualcosa d’altro. Nel mio lavoro: “Cielo e mare”, ho sognato ad esempio, di essere immersa nell’ acqua azzurra, mentre stavo coricata su un letto di camera mia. E’ indispensabile poter viaggiare, rimanendo in verità sempre nello stesso posto, chiusa in una stanza, come scrive Giulio Verne: “Qualunque cosa e’ come puoi immaginare, altri uomini, possono renderla reale”.
- Hai lavorato, convissuto e collaborato con altri fotografi. Cosa ha aggiunto o tolto al tuo lavoro? Lo consiglieresti ancora questo confronto a un giovane, piuttosto che gli studi accademici?
A un giovane, consiglierei, se posso permettermi, entrambe le esperienze, come del resto ho fatto io stessa, che ho studiato allo IED quando avevo 20 anni e nello stesso tempo, facendo l’assistente, prima negli studi di Vogue e poi per Joe Oppedisano, infine ho avuto la fortuna di essere l”assistente di Enzo Nocera, un grande fotografo ritrattista, molto preciso e sensibile.
- L’Inghilterra ha saputo negli anni scorsi, supportare e pianficare la propria arte, creando anche le possibilità concrete per il mercato dei collezionisti. In Italia, siamo ancora molto indietro e cristallizzati in meccanismi superficiali ed inefficaci. Fuga all’estero per chi può?
Un lavoro o meglio un trittico, mi e’ sempre rimasto nel cuore. Un’opera di Umberto Boccioni, la serie degli stati d’animo: “Quelli che vanno, quelli che restano”. Io ho assistito, nella prima parte della mia vita, a molti addii, poi mi sono ritrovata nella schiera di chi resta. Oggi, a 51 anni, sento di essere entrata nel gruppo di quelli che partono, ma come ho sempre pensato, il viaggio, non e’ sempre e soltanto uno spostamento fisico e spaziale ma puo’ essere un mutamento spirituale, per imparare a lasciare andare le proprie paure, per intraprendere dei cammini dove I sentieri non sono ancora battuti e tracciati. Per me, la vita, e’ una continua sfida con me stessa, in un percorso di continuo miglioramento e apprendimento.
- Progetti futuri?
Esplorare l’atto creativo e continuare a godermi il viaggio, sia quello virtuale, sia quello compiuto dai miei passi, come una vera viandante.