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Giorgio Diritti, “L’uomo che verrà” – Liberi da ogni male.

di Silvia Simonetti

In queste stagioni scomode e fragili si esorcizza ancor di più la nascita della Repubblica Italiana, ovvero il 2 giugno del 1946 in cui tutto risorge e finisce con l’era dittatoriale e pericolosa, dopo la Seconda Guerra Mondiale in cui ci fu il firmamento e la resa da parte dell’esercito tedesco nei confronti del popolo italiano.

Nel raffigurare quegli anni è stato il grande cinema interiore e messaggero di Giorgio Diritti, recentemente vincitore come miglior film al premio di David di Donatello 2021 con Volevo Nascondermi (qui la recensione: Volevo Nascondermi).
Quest’ultimo nasce come documentarista, affiancandosi a diversi registi, da Ermanno Olmi a Pupi Avati, esordendo con Il vento fa il suo giro come unicum filmico che vinse numerose candidature nazionali e internazionali, lasciando una nuova impronta comunicativa: invocare l’esperienza e la storia dell’uomo.
Sicuramente ci sarà un suo film che ricorderemo per tutta la nostra vita, il tempo della guerra, l’attimo della guarigione e che ci rimembrerà chi siamo, prima del dolore umano: L’uomo che verrà.

Giorgio Diritti ci orienta verso un’Italia malata e ferita, laddove la fuga era la speranza dell’avvenire.
In questo caso l’opera filmica si concentra su un’avvenimento atroce che non lascia scampo alla grazia divina, ovverosia la strage di Marzabotto, l’eccidio di Monte Sole, uno dei più gravi crimini di guerra nei confronti del popolo civile.
Salvatore Quasimodo scrisse una poesia incisa alla base del faro monumentale che si trova sulla collina di Miana:

«Questa è memoria di sangue, di fuoco, di martirio, del più vile sterminio di popolo, voluto dai nazisti di von Kesselring e dai loro soldati di ventura, dell’ultima servitù di Salò per ritorcere azioni di guerra partigiana.
I milleottocentotrenta dell’altipiano, fucilati ed arsi, da oscura cronaca contadina e operaia entrano nella storia del mondo, col nome di Marzabotto».

E’ nella poesia visiva di Giorgio Diritti che ritroviamo la storia perduta di Marzabotto attraverso gli occhi di Martina, una bambina molto intelligente e che appartiene a una famiglia numerosa contadina. In essa percepiamo lo sguardo silenzioso e un seguente mutismo. Incominciamo a vedere il declino dell’innocenza smarrita tramite fucilazioni spietate all’interno di chiese, vaste praterie, casolari.
Ogni genere umano eliminato senza alcun perdono, ma la provvidenza ha salvato Martina nascondendosi e rifugiandosi nella chiesa di Cerpiano, con lei altre poche persone che riuscirono a sopravvivere.
Ritornando a casa, vide spazi vuoti, finestre cadute e oggetti frantumati. L’unica anima viva, all’interno di una culla, era il suo piccolo fratellino nato durante l’assedio e insieme si dirigono nella canonica di Don Forsasini per trovare conforto e protezione.

Il finale, forse è la reale voce profonda della liberazione di ogni popolo italiano, attraverso la figura della bambina seduta su una grande quercia che tiene in braccio il nascente e gli canta la ninna nanna della melanconia umana.

Dobbiamo avere una sana e lucida memoria di ciò che siamo stati e che solo abbracciando il filo d’oro della rettitudine e dell’innocenza, saremo ancora vivi e liberi da ogni esilio.
L’uomo che verrà è la nostra cattedrale, luce divina dei nostri giorni, come una lunga preghiera solitaria che ci spinge a essere onesti con la vita che attende il recupero dell’intera società contemporanea.
Gridate o sussurrate guardando il cielo terso, «finalmente siamo liberi da ogni male».

 

Silvia Simonetti: 
Classe 1993, diplomata in Nuove Tecnologie dell’Arte e con successiva magistrale in Arti Multimediali del Cinema presso l’Accademia di Belle Arti di Brera.
Si dedica al processo della sperimentazione fotografica, tra analogico e moderno, all’elaborazione di videoinstallazioni digitali, Arti performative e sviluppo di cortometraggi indipendenti.

 

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