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MIELE

10 Ottobre 2016
1.242 Views
di Marta Dore
miele locandina

Miele_Locandina

L’hanno descritto come un film sull’eutanasia. E invece Miele, uscito tre anni fa, è un film d’amore come raramente se ne sono visti. Dove l’amore non è solo quello romantico. Anzi, dove quello romantico quasi non c’entra niente.

L’amore qui è quello profondo di una sorella, di un marito, di una madre, di una figlia, travolti dal dolore insopportabile cui i loro cari sono condannati da malattie atroci che non lasciano speranza.

È l’amore, infatti, che muove ogni scelta di quasi tutti i personaggi di questo bellissimo film, girato da Valeria Golino e prodotto da Riccardo Scamarcio. Un film profondo, denso e delicato, ricco di umanità vissuta e meditata. Perfino urgente, direi.

L’amore, si diceva. Che muove ogni scelta. Anche quelle che portano a preferire la morte piuttosto che una vita umiliata, dove il corpo non ti appartiene più o è solo fonte di dolore intollerabile. L’amore che ti permette di accettare quella scelta di tua moglie, di tuo fratello, di tuo figlio addirittura, quella rinuncia a esserci, che diventa condanna a vita anche per te. O per chi aiuta a mettere in pratica quella decisione grave.

Ed ecco il tema dell’eutanasia, che è sì il centro del film, ma non il suo cuore.

Al centro del film c’è Irene, o Miele, la giovane donna che aiuta chi sta male a morire. E Irene è un personaggio che si costruisce lentamente nel corso del film, a cui la regista e la sceneggiatura aggiungono pennellate progressive, fino a creare un quadro da cui è difficile allontanarsi. Un personaggio che ha il viso ipnotico di Jasmine Trinca e il suo corpo flessuoso anche se quasi maschile, privo di morbidezze, ma ricco di fragilità.

L’altro protagonista di questa storia è l’ingegnere, un anziano che chiede aiuto a Miele ma con motivazioni per lei inaccettabili, interpretato da quel gigante del teatro che è stato ed è Carlo Cecchi. È con lui che Irene affronta le riflessioni più dure riguardo il senso di questo suo lavoro (di merda, le dice la sorella di uno dei suoi “pazienti”), riguardo il senso della vita e il senso della morte. Ed è quando c’è lui in scena che il pubblico può finalmente lasciarsi andare fino a ridere addirittura, perché la verità a volte, per quanto terribile, se detta senza nascondersi provoca davvero risate nervose. O divertite.

Il rapporto complesso e intrigante tra Irene e l’ingegnere è quanto mai  improbabile sulla carta e invece poi credibile e tenero sul grande schermo. E il merito va agli attori, prima di tutto, ma anche alla sceneggiatura e alla regia, che riescono a essere veritiere e poetiche senza strafare.

Nonostante il tema del film, non viene mai (mai!) nominato dio e di questo mi congratulo con gli autori, perché dimostrano che c’è un modo laico di affrontare l’argomento “morte”, ed è un modo onesto, profondo e sofferto tanto e forse più dell’approccio religioso o moralistico con cui in questo Paese si affrontano temi di questo genere. È questo un ulteriore merito di questo film intelligente a cui continuo a pensare, trovando ancora nuove domande e nuove spunti di riflessioni. Ultima nota di merito va alla scelta delle canzoni, che tra l’altro hanno un ruolo fondamentale nelle vicende raccontate. Da Brassens ai Talking Head, passando per Caribou e Marino Marini, ogni brano ha un senso e una sua piacevolezza, ancora più evidente grazie alla mancanza di una vera colonna sonora: il film è infatti per lo più silenzioso, senza musica strumentale a sottolineare pathos ed emozioni. Una scelta di sottrazione dovuta, ma per nulla scontata.

 

 

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