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Non ci resta che il crimine

di Marta Dore

Il modello di questa commedia, chiaro già dal titolo, è il mitico Non ci resta che piangere di Massimo Troisi, con lo stesso Troisi e Roberto Benigni. E già la scelta del modello predispone alla simpatia. L’idea del plot, infatti, riprende quella dell’opera del regista napoletano: Sebastiano, Moreno e Giuseppe, tre amici “de Roma” cresciuti insieme fin da bambini, si inventano un tour (anzi, un tur) turistico nei luoghi della Banda della Magliana che impazzava a Roma negli anni Ottanta; solo che passando attraverso un buco dentro a un muro si ritrovano davvero nella Roma di quegli anni. Per la precisione si ritrovano nel giugno del 1982 e proprio dentro il bar dove muoveva i primi passi la feroce banda. In seguito a questo sbalzo temporale, i tre inizieranno ad affrontare una serie di peripezie, avventure, disavventure che li porteranno, paradossalmente, a una sorta di riscatto che si concretizzerà con il loro “ritorno al futuro” (cit).

I tre protagonisti ricordano vagamente una triade che appartiene a un classico del cinema: il bello, il brutto e il cattivo. Troviamo infatti un “cojone” buono, puro e belloccio (Alessandro Gassman), un “cattivo-vorrei-ma-non-posso” che campa di espedienti (Marco Giallini), un brutto con parrucchino che fa da schiavo al suocero commercialista (Gianmarco Tognazzi).
Lo spostamento spazio temporale, espediente ripreso appunto dal bellissimo film del mai dimenticato Massimo Troisi, permette a regista e sceneggiatori di immergerci nell’anno in cui l’Italia vinse i Mondiali grazie ai gol inaspettati di Paolo Rossi, in un’epoca, gli anni Ottanta, di grande revival ora, sia per la moda, sia per la musica, sia per l’immaginario corrente. Chi quel periodo lo ha vissuto davvero ricorderà canzoni, vezzi, e atmosfere e godrà di un amarcord che scalda il cuore. Sono divertenti gli equivoci e le gaffe che nascono per esempio dall’abitudine all’uso della tecnologia dei tre personaggi calati in un contesto in cui non esisteva niente di ciò che ora ci appare pressoché vitale: iniziando dallo smartphone per finire alla sigaretta elettronica.

Fa sorridere guardare gli attori cimentarsi in ruoli che non sono per loro abituali: per esempio quello di Gassman, abituato a essere bello e carismatico sullo schermo, mentre qui deve impersonare un uomo goffo, tenero e per nulla tenebroso.
Ed è sempre un piacere vedere Marco Giallini al lavoro, al punto che ogni suo film ci appare imperdibile solo per il fatto che c’è lui. Attore di grandissimo talento, ci regala ancora una volta un personaggio insieme comico e drammatico, tenero e sbruffone: Moreno è infatti un uomo che non è riuscito a combinare niente nella vita, tutto impegnato a darsi arie da duro per nascondere le proprie insicurezze e una grande sensibilità. Personaggio perfetto per le corde multicolori di Giallini.
La regia ricorre in modo evidente allo stile visivo di quel tempo. Ripropone movimenti di macchina tipici dei polizieschi in tv, come gli zoom sui primi piani, le riprese deformanti dal basso e l’uso dello split-screen su molte scene: tutti espedienti per regalare al film una confezione che sembra venuta dal passato. Insomma, a chi ha trascorso l’adolescenza o i 20 anni negli anni Ottanta qualche sorriso scappa e magari anche qualche lacrimuccia. Certo, Non ci resta che piangere aveva un’altra capacità comica e una più acuta smania di graffiare attraverso una riflessione sul passato che potrebbe aiutare a capire il presente.
Ma il cinema può legittimamente offrirsi come pura evasione ed è questo il caso: si trascorre un’ora e mezza piacevole grazie a un umorismo garbato e ad attori sempre all’altezza.

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