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Salvatores: “Tutto il mio folle amore”

4 Novembre 2019
916 Views
di Marta Dore

Come si può quantificare l’amore per un figlio? Quali sono le caratteristiche che permettono di decidere chi ama di più o di meno? O chi ha più diritto di amarlo? E se un figlio è “difficile” o “strano”, che qualità assume quell’amore? Si intensifica, si fa disperato o folle, illumina chi lo prova o si mescola all’intolleranza, alla vergogna, addirittura all’odio? E ancora: vale di più l’amore per un figlio biologicamente non tuo ma che hai cresciuto, o quello di chi gli ha dato i suoi geni ma non l’ha mai visto? E l’amore tra un uomo e una donna: quando può essere definito amore vero? Quando travolge di passione o quando si nutre di sostegno reciproco, solidarietà, comprensione?
Sono queste le domande che vengono alla mente dopo aver visto “Tutto il mio folle amore”, l’ultimo lavoro di Gabriele Salvatores, Oscar al miglior film straniero nel 1991 per Mediterraneo.

È il titolo stesso a suggerire che questo è un film sull’amore, ancora prima che sull’autismo o sul viaggio, i due temi al centro della trama. La storia infatti, liberamente ispirata al libro di Fulvio Ervas “Se ti abbraccio non aver paura”, ruota intorno a Vincent (Giulio Pranno), un ragazzo “strano” perché autistico – anche se questa parola non viene mai usata nel film – nato 16 anni prima da Elena (Valeria Golino) in seguito a una relazione con un cantante da crociera, Willi detto il “Modugno della Dalmazia” (Claudio Santamaria), fuggito all’indomani della scoperta della gravidanza della compagna.

Elena cresce il figlio da sola tra mille difficoltà fino all’incontro con Mario (Diego Abatantuono), che si prende cura di mamma e bambino fino a sposare lei e ad adottare lui, diventando un padre amorevole e capace di gestire, anche più della madre, le bizze del ragazzo. All’improvviso Willi ricompare nella vita di Elena e, per una decisione impulsiva del figlio che capisce che quello strano uomo apparso in casa è il suo padre naturale, si ritrova a viaggiare con il giovane Vincent lungo le strade deserte dei Balcani, tra giostrai e gestori di improbabili centri benessere. Ed ecco il tema del viaggio, tanto caro al regista milanese, visto come occasione di crescita e di scoperta di sé: la fuga del figlio e del padre permetterà loro sia di scoprirsi reciprocamente sia di scoprire dentro se stessi risorse di amore e sensibilità che non credevano di avere. Ma anche Elena e Mario, che inseguono i “fuggitivi”, avranno l’occasione di dirsi verità che non si erano mai detti e di osare ruoli fuori dagli schemi che non si erano mai concessi. Alla fine, tutti capiranno che se è vero che Vincent è strano, è anche vero che “da vicino nessuno è normale” e che per tutti la salvezza sta solo nell’amore, appunto, e nella sua articolata complessità.

Non è un capolavoro quest’ultima fatica di Salvatores, ma è certamente un film godibile che scalda i cuori, anche grazie all’affascinante ambientazione balcanica scelta dal regista e alle buone prove d’attore di tutta la squadra, primo fra tutti Diego Abatantuono, che riesce a dare spessore e sfumature a un personaggio che tutto sommato, nella sceneggiatura, è un po’ in secondo piano.

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