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The Place

di Noemi Stucchi

«Perché chiedi cose così orrende tu? Perché c’è chi è disposto a farle».

Sempre seduto allo stesso tavolo del bar c’è Valerio Mastandrea nei panni di un uomo senza nome che aspetta con aria triste e stanca. Ha con sé un agenda per esaudire i desideri degli infelici che vengono a chiedergli aiuto. L’uomo ascolta le richieste della gente indicando loro una via alternativa, una soluzione per ottenere ciò che desiderano. I compiti assegnati sono difficili ma mai impossibili da realizzare e spesso gravano sulla felicità altrui.
Tra le richieste c’è quella di far scoppiare una bomba, violentare una donna, insabbiare una denuncia e uccidere una bambina. È l’agenda a suggerire cosa le persone dovranno fare affinché il desiderio venga esaudito.
L’uomo si limita a leggere la proposta, a stipulare un contratto e ad annotare gli sviluppi.
Un contratto senza obblighi con la possibilità di rescissione in qualsiasi momento: c’è chi cede al compromesso, chi tenta di percorrere un’altra strada, chi alla fine accetta la propria condizione dopo averle provate tutte.

 «Cosa saresti disposto a fare per ottenere ciò che desideri?»

Che si tratti di un Dio o del diavolo in persona, l’uomo offre una soluzione chiedendo a sua volta qualcosa, uno scambio di azioni. Non chiede l’anima dei dannati, o forse solo un pezzo, perché di certo quello che conta sono i dettagli.
«C’è qualcosa di orribile in ognuno di noi. chi non è costretto a scoprirlo è molto fortunato»: la frase pronunciata da Giulia Lazzarini sembra racchiudere il nocciolo del film.
Ti sorprenderesti se sapessi cosa saresti in grado di fare.

Con riferimento esplicito, il dramma prende forma dalla serie americana The Booth at the End ideata da Christopher Kubasik.
La trama è la stessa, un uomo misterioso ha il potere di realizzare i desideri di coloro che si rivolgono a lui. Ma a che prezzo?

Ogni decisione presa dai singoli avrà un peso su quella degli altri personaggi che a turno si siedono intorno a quel tavolo. Inconsapevolmente il loro destino sarà legato in un gioco crudele.
Le scelte di un poliziotto tormentato dai sensi di colpa (Marco Giallini) attraverseranno l’esistenza di più persone: di suo figlio (Silvio Muccino) e della nuova compagna (Silvia D’Amico) influendo sulla vita di una donna insoddisfatta del marito (Vittoria Puccini).
La vita di una suora che non sente più la voce di Dio (Alba Rohrwacher) si intesse con quella di un ragazzo non vedente (Alessandro Borghi), mentre la vita di Gigi (Vinicio Marchioni) che vuole salvare il figlio da una malattia terminale si attorciglia alle vicende di un meccanico (Rocco Papaleo) che vorrebbe passare una notte con la donna dei suoi sogni.
Per avere indietro suo marito dall’alzheimer, le scelte di una donna (Giulia Lazzarini) coinvolgeranno tutti, nessuno escluso.

L’uomo senza identità assiste inerte alla vicende umane, spettatore impotente del corso degli eventi. Come dirà Mastandrea, un uomo che non può far altro se non indicare una possibilità di certo non è un mostro, ma dà loro da mangiare. Il suo volto fa da specchio al suo interlocutore. È stremato, osserva e riflette il dolore di chi ha davanti. Lapidario e distaccato, gli unici sorrisi che ci concede è quando scopre di essersi ingannato.
Colui al quale tutti chiedono aiuto è forse quello che avrebbe più bisogno di essere aiutato.

«Vorrei non fare più quello che faccio. Vorrei non dover sentire tutti i mali del mondo».

L’unica ancora di salvezza è Angela (Sabrina Ferilli), la cameriera che con insistenza riesce a scalfire la corazza dell’uomo misterioso tirando fuori il suo lato più umano.
Angela è l’altra faccia della medaglia, altrettanto enigmatica, affascinante e pronta ad amare. Due figure agli antipodi legati dallo scambio di ruolo delle parti.

Così come in Perfetti sconosciuti, Paolo Genovese sviluppa l’azione a partire da un luogo chiuso e circoscritto da cui si diramano fiumi di parole.
Questa volta a rivelare l’essere umano nelle sue verità più profonde è il dialogo serrato del botta e risposta e quelle inquadrature da primo piano sulle espressioni degli interpreti.

Il finale, sempre aperto, lascia alla libera interpretazione e mette lo spettatore nella condizione di non trovare risposte ma di porsi delle domande. Oltre a ribadire come in ognuno di noi si nasconda un lato oscuro, il film di Genovese si astiene dal giudizio e sembra andare al di là di ogni possibile morale.
In fondo si farebbe di tutto per amore.
Piuttosto, come uno spiraglio di luce, sembra suggerire come tutto può cambiare da un semplice incontro e come le vite si intreccino in un gioco del destino.

 

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