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Tre piani – il film di Nanni Moretti al cinema

di Marta Dore

Ho visto Tre Piani, di Nanni Moretti, in uno stato di grande disorientamento. Avevo raccolto (errore, mea culpa!) commenti di amiche e amici del tutto contraddittori: ho ascoltato l’entusiasmoa di chi ha amato il film e la delusione amara di chi non lo ha capito. “La Buy è meravigliosa”. “La Buy è insopportabile”. “I dialoghi sono una lama nel cuore”. “La sceneggiatura è un disastro”.

La storia è tratta dall’omonimo, acclamato romanzo di Eshkol Nevo. E questa è una novità per Nanni Moretti, regista che amo, lo dico subito. Moretti non aveva mai scritto un film ispirandosi al testo di altri ed è forse questo che ha compresso il genio di un autore fuori classe come il regista romano.

La storia narrata, che si dispiega in dieci anni con salti temporali di cinque, riunisce tante storie, quelle degli abitanti di un palazzo romano abitato da famiglie della media borghesia: due giudici (Nanni Moretti e Margherita Buy) con il loro figlio ventenne (Alessandro Sperduti), una giovane coppia di professionisti (Riccardo Scamarcio, Elena Lietti) e la loro bambina (interpretata – secondo le età – da Chiara Abalsamo, Giulia Coppari, Gea Dall’Orto), una coppia di pensionati (Anna Bonaiuto, Paolo Graziosi) e la loro giovane nipote (Denise Tantucci), una neo mamma (Alba Rohrwacher) con un marito ingegnere (Adriano Giannini), molto assente a causa del lavoro che lo tiene lontano per lunghi periodi.

Le loro vicende si intrecciano in vari modi, anche drammatici. C’è un incidente stradale provocato dal figlio dei giudici che causa la morte di una donna; ci sono le ossessioni di un padre tormentato dal sospetto che la sua bambina abbia subito un abuso da parte del vicino di casa anziano con inizio di demenza senile; c’è un abuso agito davvero; c’è la solitudine allucinata di una giovane madre. Nello sviluppo degli avvenimenti, Moretti indaga le motivazioni emotive e sentimentali di personaggi che si rivelano fragili, ognuno a modo suo: chi per un eccesso di autocontrollo e chi per il suo contrario, per un abbandono furioso alle proprie paure e pulsioni. Ogni personaggio agisce, e le sue azioni hanno conseguenze su di lui e sulle persone vicine. Non ci sono buoni o cattivi, anche se a volte le conseguenze di certi comportamenti sono devastanti. Ma quello che emerge è la buona fede di tutti e tutte, e questo rende ogni personaggio scusabile, se non addirittura commovente per l’empatia che suscita – siamo tutti fragili, siamo tutti vittime a volte di conseguenze che non avevamo né previsto né voluto.

È vero che a volte le battute messe in bocca ai personaggi dei film sono inutilmente troppo chiarificatrici, a volte Moretti cade nella tentazione di voler spiegare quando forse sarebbe stata più efficace la forza delle vicende narrate, senza bisogno di farle commentare dai personaggi stessi.

Il cast è di primordine e sono tutti intensi e credibili. Menzione speciale a Margherita Buy, che nonostante la sua tendenza a rappresentare la nevrosi estrema qui mi è sembrata invece moderata e tenera, e ad Alba Rohrwacher, bellissima creatura pre-raffaellita, che appare davvero disorientata come potrebbe essere una fata dei boschi costretta in città.

Alla fine, ho l’impressione che uno dei temi principale del film sia quello del valore del tempo: bisogna saper aspettare per capire le cose, per chiedere perdono, per concederlo, per liberarsi dei pesi accumulati in una vita, per riconoscere responsabilità o, al contrario, per scoprire l’innocenza di chi hai temuto. A volte invece, è bene non perderlo il tempo, perché poi potrebbe essere troppo tardi.

Insomma, Tre Piani (presentato al Festival di Cannes) non ha l’ironia di Bianca, né la lucidità e la poesia di Caro Diario e nemmeno la potenza della Stanza del figlio, ma è un buon film, con tante cose da dire e da dare.

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